Come ben sanno coloro che a vario titolo si occupano di stabilire la verità oggettiva intorno ad un evento più o meno tragico, i testimoni oculari sono spesso la fonte meno affidabile da cui attingere informazioni. Accade che non si racconta ciò che (forse) si è visto ma ciò a cui si crede di avere assistito. Emozioni, pregiudizi, influenze esterne e condizionamenti altrui contribuisco più spesso di quanto non si creda a costruire – più che una verità vera – una verità verosimile.
Accade per rapine e aggressioni ma accade – fatte le dovute proporzioni – anche per eventi meno traumatici ma – se non epocali – quantomeno emozionanti, come può essere un concerto musicale o la rappresentazione di una pièce teatrale; e se quanto sopra è vero per le testimonianze “a caldo”, raccolte a poche ore di distanza dall’evento raccontato, figuriamoci quanto inquinati possono essere i ricordi a distanza di quaranta anni.
Due anni che valgono un’epoca
Nel suo “Il cielo bruciava di stelle”, Gino Castaldo racconta dei giorni che vanno dal 27 agosto 1979 al 21 settembre 1981, due date non casuali perché sono quelle in cui – rispettivamente – dei banditi sardi rapiscono Fabrizio De André e Dori Ghezzi e viene pubblicato “La voce del padrone” di Franco Battiato.
Poco più di due anni che per molti valgono una vita intera, più o meno ottocento giorni il cui eco risuona forte ancora oggi tra playlist di Spotify e anniversari condivisi sui social, tredici mesi che si rincorrono tra la Brianza e Roma, tra Napoli e la Sardegna, tra la Bologna metropolitana e le sue propaggini appenniniche, un biennio magico della musica italiana racchiuso nel racconto mai nostalgico di un testimone che ancora oggi è capace di sorprendersi di quanto ha vissuto.
Il libro di Castaldo non è, non vuole e non può essere una enciclopedia didascalica e oggettiva, troppe le necessarie esclusioni, troppi i particolari doverosamente taciuti, troppi i punti in cui il dovere del cronista cede il passo all’affetto dell’amico; eppure proprio per questo “Il cielo bruciava di stelle” diventa una opera necessaria e sufficiente, con il potere maieutico di far emergere ricordi e memoria in chi legge, che non può fare a meno di chiedersi dov’era in qualcuno di quei giorni che all’epoca sembravano quasi banali.
Eccezionale normalità
In uno star system come quello attuale, in cui assistiamo alla schizofrenia di meteore che danno in pasto ai social ogni loro brandello di intimità, negando però al loro pubblico ogni contatto fisico che non sia studiatamente organizzato, sembrano lontani mille miglia quei tempi in cui Sanremo era in declino, i “feat.” e le collaborazioni nascevano spontaneamente in osteria favorite da qualche bicchiere di vino e gli artisti pubblicavano canzoni con dati personali come indirizzo di residenza o data di nascita, oggi tutelati dalla legislazione sulla privacy.
Ve lo immaginate oggi uno dei cantanti sulla cresta dell’onda accogliere l’invito di un gruppo di operai e seguirli nelle loro abitazioni per conoscere le loro condizioni di vita e di lavoro? Quanto siderale appare la distanza tra una starlette che oggi si mostra immusonita per essere stata oggetto di commenti sulla sua forma fisica rispetto ad un De Andrè che mostra comprensione per i rapitori che lo hanno costretto a quattro mesi di prigionia all’addiaccio senza la possibilità di lavarsi e cambiarsi d’abito? Quanto infantili appaiono i dissing tra polletti canterini rispetto alle signorili punzecchiature tra una nota di chitarra ed una strofa ispirata?
Si stava meglio quando si stava meglio
Lungi dal voler cedere alla mielosa retorica dei bei vecchi tempi, Castaldo nel suo libro riporta luci ed ombre: la miopia di alcuni manager, la protervia di alcune fasce di pubblico, le scelte quasi incomprensibili di chi poneva fine a carriere luminose. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, potrebbero a buon diritto commentare i protagonisti di queste storie, richiamando Publio Terenzio Afro, con buona pace dei tanti che ai cantori di storie attribuita poteri taumaturgici da guru illuminato o solenne distacco dalle bassezze del mondo, illusioni a cui – tra i tanti – risposero i diretti interessati con dichiarazioni schiette e sincere in prima (“L’Avvelenata” di Guccini) o terza (“Piano Bar” di De Gregori) persona.
Certo non mancavano ricette salvifiche e volenterosi suggerimenti; in “Io se fossi Dio” Giorgio Gaber suggerisce un “modus operandi” a suo modo illuminante, così come in “Asilo “Republic””, Vasco Rossi propone una didattica tutt’altro che montessoriana, con buona pace dei giornalisti di allora, ben lontani dal porsi dubbi di politicamente corretto.
In tutto il libro appare chiaro il messaggio che Gino Castaldo ha voluto rimarcare in un invito al termine della presentazione dell’opera, non si tratta di un cedere alla nostalgia ma piuttosto ad un invito ad essere consapevoli del passato per fare in modo che – ciascuno per quanto possibile – costruisca un nuovo futuro; e sebbene appaia difficile il ripetersi di una congiunzione astrale tale da ripetere la contemporanea presenza di tante menti geniali, pure occorre non rassegnarsi e alimentare e proteggere i semi che certamente da qualche parte staranno cercando di germogliare, facendosi largo tra tanta gramigna.
Ritorno al futuro
Certo per i tanti che – come chi scrive – quei tempi li hanno vissuti l’invito è difficile da accogliere, la nostalgia canaglia non molla la presa, ciascuno ha un ricordo di un concerto, di un disco, di una strofa indissolubilmente legati ad un amore, una amicizia, una delusione, un tradimento. Ma – citando Guccini – il tempo passa e non lo si può fermare e così – se gli Ustmamò (se non li conoscete, colmate subito la lacuna!) qualche anno dopo avrebbero cantato “Cos’è l’eternità? Se gli anni ottanta era tanto tempo fa”, a noi non resta che godere del tempo che ci fu dato e fare in modo di alimentare questa fiamma in figli e nipoti, perché domani come ieri, il cielo continui a bruciare di stelle.