Il ritratto dell’artista: in mostra a Forlì centinaia di capolavori

Nello specchio di Narciso, dai mosaici di Pompei al selfie un viaggio nell’autoritratto attraverso i secoli

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“Nello specchio di Narciso – Il ritratto dell’artista” è un titolo che dichiara un progetto ambizioso ancor più evidenziato dal claim “il volto, la maschera, il selfie”, tre espressioni di un’unica realtà che non può prescindere dalla fantasia e dalla immaginazione.

Allestita a Forlì presso il museo civico San Domenico e visitabile sino a fine giugno, la mostra si configura come un’imponente e affascinante esplorazione del tema dell’autoritratto, un genere artistico che attraversa la storia dell’arte occidentale da Narciso fino al selfie contemporaneo.

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Distribuita attraverso oltre duecento capolavori provenienti da prestigiose istituzioni internazionali — dalle Gallerie degli Uffizi al Musée d’Orsay, dal Belvedere di Vienna al Denver Art Museum — l’esposizione è molto più di una semplice carrellata di volti: è un’indagine sull’identità, sulla rappresentazione del sé e sulla tensione tra apparenza e verità.

Indice dei contenuti

Il volto come enigma e firma

Il punto di partenza simbolico e concettuale della mostra è il mito di Narciso, figura archetipica che introduce la riflessione sull’immagine riflessa, sul desiderio di conoscersi attraverso lo specchio.

In questo specchio, reale o metaforico, si annida la matrice dell’autoritratto: il pittore che si guarda, si studia e infine si dipinge, avviando un dialogo tra sé e il proprio doppio.

Nel percorso espositivo, l’autoritratto non è mai un esercizio narcisistico fine a sé stesso, ma un atto carico di significati psicologici, tecnici, simbolici. L’artista si sdoppia: è insieme soggetto e oggetto, osservatore e osservato, autore e opera. In questa doppia posizione si sviluppa un gioco sottile di maschere e rivelazioni, di finzione e autenticità.

La molteplicità del sé

Uno dei grandi meriti della mostra è dimostrare come l’autoritratto non sia mai statico, ma sempre dinamico e in trasformazione. Attraverso i secoli, l’artista non smette di interrogarsi sulla propria identità: si traveste, si deforma, si cela in mezzo a scene mitologiche o religiose, si autorappresenta in forma parziale, suggerendo con un piede o una mano la totalità dell’essere.

Nei ritratti di maestri come Botticelli, Perugino, Dürer, Hayez, il pittore non è un semplice volto tra i volti, ma spesso un narratore silenzioso, che compare come spettatore della propria opera. In alcuni casi è travestito, in altri si mostra nudo e vulnerabile. Il filo conduttore è sempre lo stesso: indagare l’essenza dell’artista, affermare la propria presenza nel tempo.

Dal Rinascimento al Novecento: una galleria di coscienze

La mostra si snoda attraverso un ampio arco cronologico, che va dal Rinascimento al XX secolo, offrendo una visione panoramica delle trasformazioni estetiche, simboliche e culturali dell’autoritratto.

Nel Cinquecento, l’autoritratto è spesso manifesto di perizia tecnica e dichiarazione di status sociale. I ritratti di Tiziano e Dürer mostrano figure consapevoli del proprio ruolo intellettuale e creativo.

Nel Seicento e Settecento, l’indagine si fa più introspettiva. Rembrandt, per esempio, traccia un diario visivo della propria esistenza, dipingendo sé stesso in diverse fasi della vita, sempre più segnato, sempre più vero.

Nell’Ottocento, il Romanticismo e poi il Realismo aprono nuove strade: l’autoritratto diventa specchio del tormento individuale. Hayez si ritrae come testimone del proprio tempo, mentre Van Gogh ne fa uno strumento di sopravvivenza psichica.

Nel Novecento, la modernità frantuma le certezze dell’identità. De Chirico si moltiplica in figure enigmatiche, Warhol gioca con la serialità e la riproducibilità dell’immagine, distruggendo l’idea stessa di unicità. L’autoritratto diventa performance, concetto, provocazione.

Il selfie: ultimo autoritratto?

La mostra chiude idealmente il cerchio con un accenno al selfie, evoluzione digitale e popolare dell’autoritratto. Ma, mentre l’autoritratto pittorico è frutto di una lunga osservazione, meditazione e costruzione, il selfie è istantaneo, compulsivo, spesso superficiale. Eppure, entrambi rispondono allo stesso impulso: fissare un’immagine di sé nel tempo, dichiarare al mondo “io esisto”, anche se le modalità e i linguaggi sono radicalmente diversi.

La mostra non giudica, ma suggerisce. Il confronto tra i ritratti di ieri e le immagini di oggi non è nostalgico né accusatorio, ma stimola una riflessione critica sul nostro rapporto con l’immagine e con la nostra identità.

Siamo ancora capaci di guardarci davvero, come faceva Rembrandt? O ci accontentiamo di essere guardati?

Una mostra da guardare dentro

L’esposizione è strutturata con grande rigore curatoriale e sensibilità narrativa. Ogni sala propone un tema – lo specchio, la maschera, il doppio, l’identità – attorno al quale ruotano opere di epoche e stili diversi, messe in dialogo tra loro. L’effetto è spesso sorprendente: accostare un autoritratto barocco a uno contemporaneo permette di cogliere continuità e fratture, similitudini e rivoluzioni.

Notevole anche la qualità delle opere selezionate: si tratta di veri capolavori, provenienti da musei e collezioni prestigiose, presentati con apparati didattici chiari e non invadenti, che accompagnano lo spettatore senza sovraccaricarlo. Il percorso espositivo è fluido, equilibrato, coinvolgente.

Questa mostra è molto più di un evento culturale: è un invito a guardarci dentro, a chiederci chi siamo, chi vogliamo essere, e come vogliamo che il mondo ci veda. Attraverso l’autoritratto, gli artisti ci parlano non solo di sé stessi, ma anche di noi, delle nostre paure, dei nostri desideri, delle nostre contraddizioni.

È una mostra che lascia il segno, perché ci costringe a fermarci, a riflettere, a mettere in discussione l’immagine che abbiamo di noi stessi. E forse, in un’epoca in cui tutto è superficie, è proprio ciò di cui abbiamo più bisogno.

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